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Cronache Stories - La leggenda di LEV YASHIN ||| L’UNICO portiere PALLONE D’ORO

La leggenda di LEV YASHIN ||| L’UNICO portiere PALLONE D’ORO

12/25/22 • 29 min

Cronache Stories
Nella cultura occidentale il portiere è sempre stato un uomo solo. A volte maledetto – pensate a Moacir Barbosa, passato alla storia come l'unico responsabile del Maracanazo – a volte pittoresco, estroso, fuori dagli schemi. “Per fare il portiere bisogna essere un po' matti”, si dice, o quantomeno non soffrire troppo il peso della solitudine. C'è anche una poesia di Umberto Saba, si intitola “Goal”, la descrizione di un gol dal punto di vista dei due portieri: quello che l'ha subito è disperato, distrutto, “contro terra cela la faccia a non vedere l'amara luce”. L'altro esulta sì, ma da lontano, cerca invano di imbucarsi alla festa degli altri: “La sua gioia si fa una capriola/si fa baci che manda di lontano/della festa – egli dice – anch'io son parte”. In Russia, invece, è tutto diverso: in Russia il portiere è un eroe nazionale, letteralmente “l'estremo difensore”, il capitano morale, l'esempio da portare ai bambini. Ladifesa della porta si sovrappone alla difesa della Patria: sarà retorico?, sì, lo è, ma ovunque il calcio è retorica, spirito di squadra, senso di appartenenza. Se da noi il portiere è un escluso, in Russia il portiere include tutti gli altri, tutto il popolo. C'è un articolo del 2006 del Guardian, scritto dal grande Jonathan Wilson, che s'intitola: “Perché tutti i russi vogliono essere portieri?”. La risposta sta in un nome, poi in un secondo nome patronimico, infine in un cognome: Lev Ivanovic Jascin. Il giovane Lev Jascin abbraccia davvero la vocazione del portiere ben oltre i vent'anni. Fino al 1949 non va oltre la squadra B della Dinamo Mosca. È stato notato da Arkady Chernyshov, allenatore delle giovanili della Dinamo, la squadra del Ministero dell'Interno, dove però tra i pali vige la logica del posto fisso: una delle poche tracce di proprietà privata nell'Unione Sovietica, proprietà di Aleksei Khomich, “la Tigre”. Khomich era il biglietto da visita della prima squadra di calcio sovietica che abbia messo il naso oltre-cortina dopo la guerra: nel novembre del 1945 la Dinamo si è esibita in alcune amichevoli a scopo puramente promozionale in Inghilterra, contro il Chelsea e il Tottenham, e lui ha rubato la scena. Una leggenda vivente. Ti puoi affacciare in campo solo nelle rare volte in cui Khomich è infortunato, o casomai per un'amichevole: come quella contro il Traktor Stalingrado, primavera del 1949, il debutto di Lev Jascin in prima squadra. Un debutto da sogno, un debutto da incubo: a un certo punto, sul rinvio del portiere avversario, prolungato dal vento, fa per andare in presa alta ma si scontra con un difensore e la palla finisce in rete, tra le risate generali. Seconda chance: 2 luglio 1950, derby sentitissimo tra Dinamo e Spartak, Khomich si fa male e dalla panchina l'allenatore Dubinin ordina a Jascin di entrare in campo. I suoi sono avanti 1-0, mancano pochi minuti alla fine, ma arriva un'altra uscita a vuoto. Leggenda vuole che dopo la partita un dirigente della Dinamo faccia irruzione in spogliatoio con parole piuttosto nette: “Sbattete questo cretino fuori dalla squadra”. Terza chance, quattro giorni dopo, 6 luglio 1950: e questa finalmente la vince, sì, ma la vince 5-4, perché il giovane Jascin ha preso 4 gol dalla Dinamo Tbilisi. Ok ragazzo, gli dice l'allenatore, sarà per un'altra volta. Come da manuale del giovane calciatore anni Quaranta e Cinquanta, Lev Jascin ha avuto un'infanzia difficile. Sua madre è morta di tubercolosi quando lui aveva sei anni. Poi, a undici anni, è arrivata la guerra: insieme a suo padre Ivan è stato evacuato da Mosca nell'ottobre 1941, trovando riparo a Ulyanovsk, 900 chilometri più a Est.
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Nella cultura occidentale il portiere è sempre stato un uomo solo. A volte maledetto – pensate a Moacir Barbosa, passato alla storia come l'unico responsabile del Maracanazo – a volte pittoresco, estroso, fuori dagli schemi. “Per fare il portiere bisogna essere un po' matti”, si dice, o quantomeno non soffrire troppo il peso della solitudine. C'è anche una poesia di Umberto Saba, si intitola “Goal”, la descrizione di un gol dal punto di vista dei due portieri: quello che l'ha subito è disperato, distrutto, “contro terra cela la faccia a non vedere l'amara luce”. L'altro esulta sì, ma da lontano, cerca invano di imbucarsi alla festa degli altri: “La sua gioia si fa una capriola/si fa baci che manda di lontano/della festa – egli dice – anch'io son parte”. In Russia, invece, è tutto diverso: in Russia il portiere è un eroe nazionale, letteralmente “l'estremo difensore”, il capitano morale, l'esempio da portare ai bambini. Ladifesa della porta si sovrappone alla difesa della Patria: sarà retorico?, sì, lo è, ma ovunque il calcio è retorica, spirito di squadra, senso di appartenenza. Se da noi il portiere è un escluso, in Russia il portiere include tutti gli altri, tutto il popolo. C'è un articolo del 2006 del Guardian, scritto dal grande Jonathan Wilson, che s'intitola: “Perché tutti i russi vogliono essere portieri?”. La risposta sta in un nome, poi in un secondo nome patronimico, infine in un cognome: Lev Ivanovic Jascin. Il giovane Lev Jascin abbraccia davvero la vocazione del portiere ben oltre i vent'anni. Fino al 1949 non va oltre la squadra B della Dinamo Mosca. È stato notato da Arkady Chernyshov, allenatore delle giovanili della Dinamo, la squadra del Ministero dell'Interno, dove però tra i pali vige la logica del posto fisso: una delle poche tracce di proprietà privata nell'Unione Sovietica, proprietà di Aleksei Khomich, “la Tigre”. Khomich era il biglietto da visita della prima squadra di calcio sovietica che abbia messo il naso oltre-cortina dopo la guerra: nel novembre del 1945 la Dinamo si è esibita in alcune amichevoli a scopo puramente promozionale in Inghilterra, contro il Chelsea e il Tottenham, e lui ha rubato la scena. Una leggenda vivente. Ti puoi affacciare in campo solo nelle rare volte in cui Khomich è infortunato, o casomai per un'amichevole: come quella contro il Traktor Stalingrado, primavera del 1949, il debutto di Lev Jascin in prima squadra. Un debutto da sogno, un debutto da incubo: a un certo punto, sul rinvio del portiere avversario, prolungato dal vento, fa per andare in presa alta ma si scontra con un difensore e la palla finisce in rete, tra le risate generali. Seconda chance: 2 luglio 1950, derby sentitissimo tra Dinamo e Spartak, Khomich si fa male e dalla panchina l'allenatore Dubinin ordina a Jascin di entrare in campo. I suoi sono avanti 1-0, mancano pochi minuti alla fine, ma arriva un'altra uscita a vuoto. Leggenda vuole che dopo la partita un dirigente della Dinamo faccia irruzione in spogliatoio con parole piuttosto nette: “Sbattete questo cretino fuori dalla squadra”. Terza chance, quattro giorni dopo, 6 luglio 1950: e questa finalmente la vince, sì, ma la vince 5-4, perché il giovane Jascin ha preso 4 gol dalla Dinamo Tbilisi. Ok ragazzo, gli dice l'allenatore, sarà per un'altra volta. Come da manuale del giovane calciatore anni Quaranta e Cinquanta, Lev Jascin ha avuto un'infanzia difficile. Sua madre è morta di tubercolosi quando lui aveva sei anni. Poi, a undici anni, è arrivata la guerra: insieme a suo padre Ivan è stato evacuato da Mosca nell'ottobre 1941, trovando riparo a Ulyanovsk, 900 chilometri più a Est.

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undefined - La più GRANDE PARATA della STORIA ||| "La parata del SECOLO" su Pelé

La più GRANDE PARATA della STORIA ||| "La parata del SECOLO" su Pelé

Guadalajara, Messico, 7 giugno 1970. Il responso del termometro, per i giocatori che stanno per scendere in campo, è devastante. Fanno 38 gradi, non si respira. La partita è stata fissata a mezzogiorno per questioni di diritti televisivi: anche più di cinquanta anni fa, erano le tv a dettare i tempi, per consentire di trasmettere il match a un orario interessante per le emittenti europee. Ok, è soltanto una partita di girone del Mondiale. Ma è quella più attesa. Negli spogliatoi si sente quel rumore ipnotico dei tacchetti che sbattono a terra. È la favola del calcio che prende vita. Nella pancia dello stadio si muovono i protagonisti. Pelé, Jairzinho, Carlos Alberto. E poi Bobby Moore, Hurst, Bobby Charlton. C’è anche il miglior portiere del Mondiale precedente, quello del 1966. Si chiama Gordon Banks e non vede l’ora di poter affrontare Pelé. Non lo sa ancora, ma sta per consegnare ai posteri quella che è stata definita, con discreta ragione, la parata del secolo. THE “BOGOTÀ BRACELET” L’Inghilterra arriva ai Mondiali del 1970 per difendere il titolo vinto quattro anni prima. L’entusiasmo della vigilia si spegne di colpo in Colombia, scelta dalla federazione inglese per preparare fisicamente i giocatori alle sfide imposte dall’altitudine che troveranno in Messico. In un momento di relax, Bobby Moore e Bobby Charlton entrano nella gioielleria Fuego Verde: devono comprare un regalo alla moglie di Charlton, ma nulla di quello che gli viene mostrato li convince. I due, scoraggiati, si accingono a lasciare il negozio. Ed è qui che succede qualcosa di impensabile. La manager del negozio, tale Clara Padilla, li raggiunge di corsa e li accusa di avere fatto sparire un braccialetto. C’è molta confusione, i due negano tutto, gli schiamazzi arrivano alle orecchie del commissario tecnico inglese Ramsey e alla fine Moore e Charlton possono andarsene. Sembra un fatto di poco conto: la preparazione della squadra prosegue, l’Inghilterra batte la Colombia in amichevole, poi anche l’Ecuador a Quito, quindi torna a Bogotà per un lungo scalo aereo in attesa del volo per Città del Messico. Neil Philips, il medico della squadra, peraltro presente all’interno della gioielleria al momento dei fatti, consiglia inutilmente alla federazione di prenotare un volo con uno scalo alternativo a Panama: idea bocciata sul nascere. Tutti a Bogotà, dunque. Staff e calciatori stanno guardando un film quando due agenti colombiani in borghese irrompono e portano via Bobby Moore, il capitano che nel 1966 aveva ricevuto dalle mani della regina Elisabetta la Coppa Rimet, arrestandolo per furto. L’arresto in modalità riservata è una gentile concessione della polizia colombiana dopo un lungo lavoro diplomatico dell’ambasciatore inglese: gli agenti, inizialmente, avevano pensato di intervenire direttamente davanti ai giornalisti. È emerso un nuovo testimone, Alvaro Suarez, che giura di avere visto Moore uscire dalla gioielleria con il braccialetto scomparso. Ramsey, spiazzato dalla situazione, decide di far comunque salire i giocatori sull’aereo per Città del Messico, comunicando alla squadra dell’arresto una volta in volo. « Bobby Moore un ladro e Bobby Charlton suo complice? Era come se ci avessero detto dell’arresto di Madre Teresa per crudeltà su dei bambini». (Gordon Banks) Moore non viene portato in carcere ma a casa di Alfonso Senior, il presidente della Federcalcio colombiana. Arresti domiciliari decisamente particolari, per consentire a Moore di allenarsi in attesa della ratifica delle accuse. Il giudice Justice (ebbene sì) Peter Dorado chiede a Padilla di ricostruire la vicenda ma la sua versione non collima più con quella raccolta subito dopo i fatti: dice di aver visto Moore mettere il braccialetto nella tasca sinistra del suo blazer, ma il blazer di Moore non ha tasche. Anche il valore del braccialetto si impenna improvvisamente: passa da 500 a 5.000 sterline. Qualcosa non quadra. Il 28 maggio, Moore viene rilasciato per insufficienza di prove, pur dovendo

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undefined - La SCONFITTA più BELLA nella storia dell’Inter ||| L’IMPRESA al Camp Nou

La SCONFITTA più BELLA nella storia dell’Inter ||| L’IMPRESA al Camp Nou

Tutti quelli che passavano da Barcellona almeno per un weekend tra il 2009 e il 2012 difficilmente riuscivano a resistere alla tentazione di dare quantomeno un'occhiata al più grande spettacolo del mondo. Un calcio ipnotico e visionario, la miglior orchestra mai assembleata dai tempi del Milan di Sacchi al servizio di un direttore di furibonda genialità, ma anche uno spettacolo costoso, esclusivo, globale nel senso più puro del termine, con migliaia di spettatori americani, indiani, giapponesi che si mischiavano ai tifosi locali, disposti a spendere qualunque cifra per 90 minuti di Messi e compagni. Nelle notti più torride era tutto esaurito anche il quarto anello del Camp Nou, da cui – notoriamente – non si vede niente, il calcio sembra virtuale e i giocatori sembrano dei pixel indefinibili come in un vecchio videogame. Quest'ingranaggio apparentemente perfetto, che coniugava risultati e stile – il Barça con le magliette sponsorizzate Unicef, su cui Mourinho avrebbe ironizzato un anno dopo – questa macchina infernale che macinava titoli spagnoli e internazionali, che aveva vinto una Champions League nel 2009 e un'altra ne avrebbe vinta nel 2011, fu sabotato il 28 aprile 2010. In dieci, nel Duemila-Dieci, a difesa di un risultato che, privato del trattino, diventa anch'esso un Dieci. 10 cartoline da Barcellona, la più bella sconfitta della storia dell'Inter.Era considerato dormiente dal 1821, ma intorno alla mezzanotte del 20 marzo 2010 il vulcano islandese Eyjafjöll, punta di diamante del ghiacciaio Eyjafjallajökull (eiafiatlaiòcutl ), ha la bella idea di risvegliarsi ed eruttare. È l'ultimo sabato sera invernale: l'Inter ha rallentato a Palermo, 1-1, gol di Milito e pareggio di Cavani, ed è andata a dormire con un filo di preoccupazione perché il Milan di Leonardo, il giorno dopo, battendo il Napoli in casa potrebbe operare il sorpasso in vetta alla classifica – ma non ci riuscirà. Per un mese il vulcano islandese rimane un accidente trascurabile e non trova spazio sui giornali fino a metà aprile, quando un'altra grossa eruzione crea un'enorme nube di ceneri vulcaniche che appesta i cieli di tutto il continente e causa disagi, ritardi e cancellazioni in tutti gli aeroporti d'Europa. Così il Barcellona arriva a Milano dopo 15 ore di viaggio in pullman stile gita scolastica, con unica tappa a Cannes: un pullman extra lusso, naturalmente – qui vedete Puyol che prova a rassicurare i tifosi postando su Twitter le foto degli interni.Ma la sfacchinata lascia alcune scorie nelle gambe dell'ultrastressato Barça, che dopo il gol di Pedro cade con tutte le scarpe nella strategia approntata da Mourinho: difendere bassissimi e ripartire, fino a pungere tre volte con Sneijder, Maicon e Milito. Anche su Inter-Barcellona 3-1 si potrebbe parlare per giorni interi e solo lo show finale di Balotelli meriterebbe una parentesi di mezz'ora. Ad ogni modo, nonostante i due gol di scarto, il Barça è ancora sinceramente convinto che si sia trattato di un episodio isolato e irripetibile, anche se Iniesta è infortunato e salterà anche il ritorno, anche se i cinque cartellini gialli – tra cui quello di Puyol, diffidato e squalificato – dovrebbero allarmare un po' Guardiola sulla delicatezza anche psicologica del doppio confronto. Del resto, il punteggio che serve l'hanno già ottenuto a novembre, nel girone, un Barcellona-Inter in cui il 2-0 finale stava fin troppo stretto al Barça, perdipiù senza Leo Messi. Niente, la parola è solo una, recitata come un mantra, agitata come un grido di battaglia: “remuntada”. “Io ho raccomandato ai miei giocatori di inseguire un sogno, mentre invece per il Barcellona è un'ossessione. Il sogno è più puro dell'ossessione. Per il Barcellona raggiungere la finale di Parigi nel 2006 e Roma nel 2009 è stato un sogno, ma arrivare alla sfida decisiva al Santiago Bernabeu, nella tana del Real Madrid, è un'ossessione. Li capisco: lo sarebbe anche per noi se andassimo a giocarci la Champions a Torino". (José Mourinho, c

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