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Cronache Stories

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Cronache di spogliatoio

Calcio, cuore, passione, orgoglio, appartenenza. In un'unica parola: emozioni.
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I 10 migliori episodi di Cronache Stories

Goodpods ha curato una lista dei 10 migliori episodi di Cronache Stories, classificati in base al numero di ascolti e Mi piace che ogni episodio ha raccolto dai nostri ascoltatori. Se stai ascoltando Cronache Stories per la prima volta, non c'è posto migliore per iniziare se non con uno di questi episodi eccezionali. Se sei un fan dello show, vota il tuo episodio di Cronache Stories preferito aggiungendo i tuoi commenti alla pagina dell'episodio.

La notte MALEDETTA di Roma-Liverpool 1984 ||| Finale Coppa Campioni

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Cronache Stories - Romário ||| Dalle FAVELAS ai 1000 GOL in carriera
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09/25/23 • 45 min

«Sono nato a Jacarezinho e sono infinitamente grato alla favela. Qui ho imparato a vivere con dignità, ho capito che le persone, per essere rispettate, devono parlare in maniera schietta. Ecco perché dico sempre la verità: non mi importa che possa fare male a qualcuno» Rio de Janeiro è una città sterminata. Sotto gli occhi e le braccia spalancate del Cristo Redentore del Corcovado si cela un mondo: quello smaccatamente turistico di Copacabana e Ipanema, quello sfacciato e divertito del Carnevale più conosciuto del mondo, quello capace di racchiudere una foresta, la foresta di Tijuca, all’interno di una città. Ha ospitato Mondiali e Olimpiadi, è stata capitale del Brasile per quasi due secoli. Per buona parte può essere paragonata alle principali metropoli mondiali, ma è una terra di enormi contrasti, emblema del Brasile stesso. Le favelas più conosciute ed estese del Paese si trovano proprio a Rio: baraccopoli realizzate con materiali di fortuna e strade nelle quali proliferano degrado e criminalità. Hanno rappresentato l’approdo naturale per migliaia, forse addirittura milioni, di ex schiavi: nel maggio del 1888 venne promulgata la Lei Áurea, la Legge d’Oro, che aboliva la schiavitù nel Paese, ultimo atto di un processo di abolizione che era iniziato quasi quaranta anni prima, nel 1850. A firmare la Lei Áurea fu Dona Isabel, principessa imperiale del Brasile, insieme al ministro dell’Agricoltura dell’epoca, Rodrigo Augusto da Silva. Era, appunto, 1888. 135 anni fa. Solo 135 anni fa. Il Brasile, infatti, è stato l’ultimo Paese del continente americano ad abolire la schiavitù. Una delle principali favelas di Rio de Janeiro è Jacarezinho, nella zona nord della città. Secondo gli studiosi, non si tratta di una semplice baraccopoli, ma di un vero e proprio quilombo replicato in area urbana: per quilombo si intende una comunità fondata da schiavi africani fuggiti dalle piantagioni in cui erano rimasti a lungo prigionieri, generalmente collocata nelle zone interne del Paese. Questa la spiegazione del termine nel portoghese brasiliano. Se invece scendente giù in Argentina, armar un quilombo significa semplicemente fare un gran casino...ogni collegamento non credo sia puramente casuale...Tornando a Jacarezinho, ha rappresentato il rifugio per molti di quegli schiavi deportati, diventando in assoluto la favela con la più alta concentrazione di afro-americani. Un territorio fortemente collegato alla figura di Getulio Vargas, visto che si trattava di un’area di proprietà della sua famiglia. Vargas fu il leader della rivoluzione brasiliana del 1930, che pose fine alla Prima Repubblica: all’epoca presidente dello stato del Rio Grande do Sul, fu sconfitto alle presidenziali da Julio Prestes e guidò l’insurrezione in seguito all’assassinio di Joao Pessoa, il suo candidato vicepresidente.
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Cronache Stories - La FAVOLA del CAMERUN ||| Italia ‘90
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12/20/22 • 29 min

Questa storia inizia dall'Isola della Réunion, in pieno Oceano Indiano: quel che tecnicamente i francesi chiamano DOM (départment d'outre-mer), dipartimento d'oltremare, perché pur trovandosi a 420 chilometri a Est del Madagascar è territorio francese e risponde alle leggi e agli statuti della Repubblica Francese. Qui è ambientato uno dei film meno riusciti di François Truffaut, “La mia droga si chiama Julie”, con Jean-Paul Belmondo e Catherine Deneuve. Qui sta letteralmente svernando quello che è probabilmente il più grande calciatore africano degli anni 80: Roger Milla, 38 anni, l'unico giocatore della Jeunesse Sportive Saint-Pierroise, squadra di terza categoria francese, a percepire un regolare stipendio. Ha un grande avvenire dietro le spalle che risale per esempio al 1981, quando aveva vinto la Coppa di Francia con il Bastia, segnando un gol in finale contro il Saint Etienne di Platini. Nel 1989 Milla ha preso un solo voto al Pallone d'Oro. Sì, ma il Pallone d'Oro africano! Per la cronaca, ha vinto un giovane attaccante liberiano del Monaco, un certo George Weah. E Milla è arrivato cinquantesimo, a pari merito con tutta una serie di sconosciuti di cui oggi non si trova traccia nemmeno su Wikipedia: Amegassé, Makinka, Mutumbile, Rasoanaivo, Wachironga... Quest'anno ha preso un voto: l'unico a votarlo è stato il corrispondente dell'Herald di Harare, principale quotidiano dello Zimbabwe, ma si è trattato più che altro di un atto di fede. Il Pallone d'Oro Africano lui l'aveva già vinto, sì, ma nel 1976, tredici anni prima, quando giocava con il Tonnerré Yaoundé. Ha pure chiuso con la Nazionale, per una questione personale: mentre stava giocando un'amichevole contro l'Arabia Saudita, sua madre è morta. Il Ministro dello Sport gli aveva promesso che l'avrebbero ricoverata, ma non l'aveva fatto. E allora, per onorare la sua memoria, è diventato la versione black di Achille nel primo libro dell'Iliade: si è ritirato sdegnato nel suo accampamento, alla Réunion, e ai Mondiali andateci voi. Senza di lui, il Camerun ha fatto una figura magrissima alla Coppa d'Africa 1990: eliminata ai gironi da campione uscente da Zambia e Senegal, un disastro. A Italia 90 il Camerun è finito in un girone durissimo: i campioni del mondo dell'Argentina, i vice-campioni d'Europa dell'Unione Sovietica, e la Romania che è imperniata sul blocco della Steaua Bucarest finalista di Coppa Campioni nell'89. Così, a due mesi dalla partenza per l'Italia, tocca intervenire al presidente della Repubblica in persona: Paul Biya. In realtà la gran parte dell'opinione pubblica e della stampa sportiva non sono entusiasti dell'idea di supplicare in ginocchio Milla, però Biya è uno che sa fiutare l'aria: gode di un certo seguito nel Paese, tanto che alle elezioni del 1988 è stato rieletto con il 98,75% dei voti – anche se, secondo qualche maligno, ha pesato il fatto che fosse l'unico candidato. Flashforward: a febbraio Paul Biya compirà 90 anni ed è TUTTORA il presidente della Repubblica. Così scavalca l'opinione del ct, che farebbe a meno pure lui di richiamare Milla, e sguinzaglia il suo ministro dello Sport, Joseph Fofé – quello che due anni prima non aveva mantenuto la promessa – e lo costringe a umiliarsi al cospetto di Milla. E lui, come Cincinnato, accetta di riprendere le armi e ballare la sua Last Dance con tutti gli altri Lions Indomptables, i Leoni Indomabili. In quel momento il Camerun detiene un curioso record di cui va molto fiero: è l'unica Nazionale della Terra a non aver mai perso nemmeno una partita ai Mondiali. C'è stato solo una volta, nell'82, ed è tornato a casa dopo tre pareggi contro Perù, Polonia e Italia, con qualche sospetto di combine che è stato sempre sdegnosamente negato sia da noi che da loro.
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L'Avvocato Gianni Agnelli e la Francia hanno sempre avuto un rapporto privilegiato. Dalle parti di Casa Agnelli affiora ogni tanto una battuta che, come tutte le battute, possiede sempre un fondo di convinzione in chi la pronuncia: “Il Piemonte non è una regione della Francia, è la Francia che è una regione del Piemonte”. Tanto addirittura da sposarsi, in Francia, con Marella Caracciolo, precisamente nel castello di Osthoffen, vicino Strasburgo, il 19 novembre 1953. Ma un anno prima, sempre in Francia, ha avuto l'incidente che gli ha cambiato la vita. Pochi giorni dopo Ferragosto, al culmine di un'estate leggendaria in Costa Azzurra, dedicandosi a una delle sue grandi passioni – l'altra è il calcio. Si trova su una Fiat station-wagon in compagnia di Anne-Marie d'Estainville, bellissima ragazza di 17 anni al debutto in società: insieme a lei sta tornando da una festa organizzata dal banchiere ungherese Arpad Plesch. Per lei ha litigato con la sua compagna di allora, Pamela Digby, già ex moglie dell'unico figlio di Winston Churchill. Dopo una scenata di gelosia Gianni Agnelli esce dalla sua villa di Beaulieu insieme ad Anne-Marie, schiaccia a fondo l'acceleratore e sulla statale 98 che collega Nizza a Mentone – chiamata appunto la Basse Corniche – fa un frontale con un furgoncino Lancia su cui sono a bordo quattro macellai, nella più classica delle contrapposizioni tra quelli che si sono già svegliati per andare a lavorare e chi invece non è ancora andato a dormire. Il camioncino viene sbalzato contro una parete di roccia: due dei quattro passeggeri perdono la vita. L'auto è in frantumi. La ragazza esce quasi illesa, soccorsa e portata via prima dell'arrivo della polizia dall'auto di un altro suo amico che aveva partecipato alla festa. Ma l'Avvocato non ne esce indenne: la gamba destra è fratturata in sette punti diversi. Trasportato alla clinica Lutetia di Cannes, finisce sotto i ferri per parecchie ore e l'intervento non riesce bene, tant'è che sarà costretto a nove mesi di immobilità, prima che l'amputazione della gamba venga scongiurata dal professor Achille Dogliotti, fuoriclasse della chirurgia torinese. Come eterno ricordo di quella serata, una menomazione permanente alla gamba che lo costringerà ad aiutarsi sempre più spesso con il bastone – un bastone molto dandy, in pieno stile Agnelli.

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Cronache Stories - La storia di GIGI LENTINI ||| Il campione INCOMPIUTO
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02/22/23 • 31 min

«Potevo essere molto di più, anche se ormai ci penso poco. Del calcio mi piaceva solo il campo, tutto il resto no. Sono sempre stato un ragazzo tranquillo, non una testa di cazzo: chi mi conosce, lo sa» Di quanti talenti ci siamo chiesti: «Come sarebbe andata se avesse fatto una scelta invece di un’altra?». Questa è una di quelle storie. Ma è anche la storia di come un determinato modo di raccontare il calcio e i suoi protagonisti possa finire per creare una visione distorta, una narrazione facile ma lontana dalla realtà. Per troppo tempo, si è cercato di ricamare storie sul suo modo di vivere. I capelli lunghi, l’orecchino in vista, le automobili di lusso. Gianluigi Lentini voleva soltanto giocare a calcio. E lo faceva splendidamente, forte di un fisico bestiale e di una padronanza tecnica innata. Chi l’ha detestato, confondendo la sua riservatezza per spocchia, vi dirà che ha fatto troppo poco per meritare di essere ricordato. Chi lo ha amato, invece, vi spiegherà che quel poco è stato più che sufficiente per vedere all’inizio degli anni Novanta un calciatore avanti dieci anni. Gigi Lentini nasce a Carmagnola nel marzo del 1969, ma soltanto perché lì c’è l’ospedale. Cresce infatti a Villastellone, un quarto d’ora più a nord, purissima campagna torinese: il sole che d’estate cuoce i tetti delle case e che d’inverno, invece, si vede meno. Il pallone diventa subito un passatempo che domina le sue giornate e a dieci anni è già nel vivaio del Torino, che in quegli anni non è solo un serbatoio per la prima squadra, ma per tutto il calcio italiano. Sergio Vatta, allenatore della Primavera e maestro di calcio giovanile, era entrato in società in pianta stabile due anni prima: merito anche di un’imbeccata che non era stata assecondata da Gigi Radice. Nel 1975, quando allenava l’Ivrea e per un giorno a settimana faceva l’osservatore per i granata, era stato portato a Lione da Giacinto Ellena, responsabile del vivaio del Toro, per andare a vedere il ventenne Michel Platini, all’epoca stellina del Nancy. Erano anni in cui il mercato estero, per i club italiani, era inaccessibile per regolamento: le frontiere erano ancora chiuse dopo il fallimento mondiale del 1966. Vatta rimase stregato da Platini, facendo presente al club che si poteva opzionare con cento milioni, ma alla fine non se ne fece nulla. Ma torniamo a Lentini, alla sua crescita nel settore giovanile. Vatta lo vede per la prima volta durante una partita degli allievi, a Mathi Canavese. È un colpo di fulmine. Osserva questo corpo che sembra uscito dalle mani di Canova fare su e gi ù sulla fascia, apparentemente senza fatica. C’è da lavorare, ovviamente, perché Lentini si piace un po’ troppo e il luogo comune del dribblomane fumoso è dietro l’angolo. Ma Vatta ha già capito che quella materia prima è fin troppo semplice da plasmare e da rendere un giocatore di altissimo livello. «In pochi hanno fatto la differenza come lui nelle giovanili. La maglia numero 7 finiva sempre stracciata. Una volta fece quattro gol alla Samp, nell’ultimo scartò mezza squadra, si fermò sulla linea di porta, aspettò il portiere e segnò. Eravamo al Fila, il portiere era Pagliuca che lo inseguì per tutto il campo». (Sergio Vatta) Si guadagna in fretta la chiamata delle nazionali giovanili, gli esperti di cose granata lo devono tenere d’occhio già nella stagione 1986-87, quando inizia a trovare un po’ di spazio in prima squadra agli ordini di Radice e vince il Viareggio in Primavera, insieme all’amico Diego Fuser. Giocare con il numero 7 nel Torino non è come farlo in altre squadre. La mistica che si porta dietro una maglia che fu di Gigi Meroni e di Claudio Sala non sembra però turbarlo più di tanto. Il calcio di Lentini è istintivo, spensierato. Per certi versi, anche un po’ arrogante. In due stagioni mette insieme poche presenze da titolare e tanti spezzoni. L’obiettivo della società è verificarne la tenuta su una stagione intera e così, nell’estate del 1988, viene mandato ad Ancona, in Serie B.
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Se mai dovesse capitarvi di passeggiare per le strade di Southampton alla ricerca di quello che fu il vecchio stadio dei Saints, non trovereste altro che un centro residenziale. È il prezzo da pagare per la modernità: il St Mary’s sorge a pochi metri dalle rive del fiume Itchen mentre il The Dell era uno di quegli impianti squisitamente britannici, con gli spalti che trovavano spazio in mezzo alle case, spuntando all’improvviso tra i vicoli. Lì dove una volta c’era il prato, oggi c’è il parcheggio interno del condominio. E tra i vari appartamenti ce ne è uno riadattato a casa vacanze, prenotabile online, senza fatica. I gestori, con una mossa illuminata, gli hanno dato il nome dell’uomo che su quel prato aveva guadagnato i gradi di divinità. E che, in quanto tale, aveva realizzato l’ultimo gol segnato in gare ufficiali all’interno di quello stadio. 19 MAGGIO 2001 – ULTIMA PARTITA UFFICIALE AL THE DELL L’incredibile carriera di Matthew Le Tissier sta giungendo al termine. Non aveva mai avuto i crismi dell’atleta modello, ma da un paio d’anni il suo declino pare evidente. È costantemente sovrappeso, non riesce a reggere i ritmi di una Premier League che è cambiata sotto i suoi occhi, diventando un campionato sempre più competitivo, in grado di attirare campioni che per anni avevano snobbato l’Inghilterra. Per amore del Southampton, o anche solo per la volontà di non uscire dalla comfort zone che si era creato, nel corso degli anni aveva rifiutato offerte di ogni tipo. Nel 1990 aveva detto no al Tottenham, la squadra per cui faceva il tifo da bambino. Seguiva le partite degli Spurs da lontano, da Saint Peter Port, la capitale di Guernsey, un pezzo di terra che sorge tra la Francia e l’Inghilterra: Channel Islands, le chiamano da quelle parti. Una zona particolare, che ricade sotto le dipendenze della Corona non per la sovranità del Regno Unito, ma per quella dell’antico Ducato di Normandia. Era arrivato giovanissimo al Southampton e non se ne era più andato, segnando gol incredibili, perché il modo di calciare di Le Tissier non aveva rivali. Era in grado di trovare la porta da distanze siderali, con angoli impossibili. Vederlo ciondolare in mezzo al campo palla al piede, abbozzando dribbling che riuscivano soltanto grazie al suo straordinario talento tecnico, non potendo contare sulla rapidità, era un’esperienza per certi versi addirittura surreale. Esiste una generazione cresciuta vedendo i gol di Le Tissier in maniera fugace, in quelle sintesi iper rapide che passavano sui canali secondari o satellitari, un rifugio per gli esteti. Italiani, tedeschi, spagnoli, rapiti a guardare delle magie che passavano in tv di sfuggita, con sorpresa e ammirazione. «In una tv catalana c’era un programma di mezz’ora ogni lunedì in cui facevano vedere i migliori gol della Premier League. Le Tissier c’era sempre, ogni settimana. Faceva dei gol assurdi. Pum! Pallone sotto l’incrocio. Pam! Finta e pallone sopra la testa di un difensore per poi fare gol. Pum! Una punizione incredibile. Mi chiedevo: “Ma perché rimane al Southampton? Potrebbe giocare con chiunque!”. In casa eravamo tutti fissati per lui» (Xavi) Aveva avuto un rapporto a dir poco controverso con la Nazionale inglese. Nonostante le prodezze, non era entrato per davvero nel giro fino all’arrivo in panchina di Glenn Hoddle, il suo idolo da bambino: era il 1996, con i sogni del primissimo «Football’s coming home» mandati in fumo dal rigore di Gareth Southgate contro la Germania. Si era ritrovato in campo in una partita dal peso specifico enorme, quella di Wembley contro l’Italia. Una gara che l’Italia di Cesare Maldini aveva vinto grazie a una saetta di Gianfranco Zola, lasciando a bocca aperta gli inglesi, che pure erano già abituati da qualche mese a vedere da vicino le giocate di quello che avevano ribattezzato, con un tocco di genialità, “Magic Box”.

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Cronache Stories - RONALDO ‘98 ||| Quando il FENOMENO diventò LEGGENDA
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10/18/22 • 38 min

Proviamo a fare un piccolo esperimento. Chiudete gli occhi. Se vi dico: «Pensate alla prima immagine di Ronaldo con la maglia dell’Inter nella sua prima stagione», cosa vi viene in mente? Il gol a Parigi contro la Lazio, quella danza che stende Marchegiani e consegna definitivamente la Coppa Uefa all’Inter dopo le firme di Zamorano e Zanetti? Oppure quella sfida aperta all’impenetrabilità dei corpi a Mosca, il controllo orientato in mezzo a due centrali dello Spartak ridotti a sagome, la capacità di pattinare sul fango tra un difensore e l’altro come se fosse totalmente incorporeo? La sterzata a Bologna nel giorno del suo primo gol in Serie A, la finta di calciare con il destro per poi ritrovarsi il pallone di colpo sul sinistro, con Paganin incapace di elaborare in pochi secondi quanto stava accadendo? O forse la punizione a giro contro il Parma, un bacio alla traversa e Buffon impietrito, impossibilitato ad abbozzare una qualsiasi reazione? E se invece fosse quella fuga alle spalle dei centrali milanisti nel giorno del derby di ritorno? Moriero che mette in mezzo un pallone telecomandato dalla trequarti e il corpo di Ronaldo che si modella in volo per trovare il modo migliore per andare all’impatto, l’emblema plastico del concetto che si portava dietro in una celebre campagna pubblicitaria: la potenza è nulla senza controllo. Sono tutte scelte legittime, perché pescare dall’album dei ricordi di quella prima stagione interista di Ronaldo è praticamente impossibile. Non c’era nulla che non potesse fare, nulla che non gli riuscisse. Faceva sembrare tutto facile anche quando era tremendamente difficile. Eppure, se qualcuno mi costringesse, pistola alla tempia, a prendere una sola azione, un solo frammento di quel Ronaldo imprendibile, di quel Ronaldo che purtroppo non avremmo più visto da lì a poco, non avrei dubbi.

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3 aprile 2018. Juventus Stadium. Andata dei quarti di finale di Champions League. Di fronte, i bianconeri padroni di casa e i campioni in carica del Real Madrid. La vigilia era stata descritta dai media come la rivincita di Cardiff, ma in campo è tutta un’altra storia. Dopo tre minuti, Cristiano Ronaldo porta avanti i blancos. Poi, al minuto 64, realizza uno dei gol più belli della storia della competizione. Cross dalla destra. CR7, in mezzo all’area, con una rovesciata stupenda, manda il pallone nell’angolino. Due a zero. L’intero catino torinese applaude il rivale più forte. La gara finirà 3-0, ma non è questo quello che conta. Perchè da quel meraviglioso gesto tecnico sta per nascere una delle trattative di mercato più impensabili di sempre. LA TRATTATIVA Quando le due squadre si ritrovano contro, per il match di ritorno al “Bernabeu”, nessuno può intuire che, nelle ore precedenti alla gara, sia avvenuto un incontro misterioso e segreto. Un faccia a faccia. Da una parte Jorge Mendes, uno dei procuratori più potente al mondo. Dall’altra Fabio Paratici, braccio destro di Beppe Marotta alla Juve. L’uomo che gestisce tutte le trattative di mercato dei bianconeri. Paratici si complimenta con Mendes per la prestazione di Ronaldo. La risposta dell’agente però lascia spiazzato il ds juventino. “Cristiano vuole andare via da Madrid. E vuole solo la Juve”. Nessuno, nemmeno il tifoso bianconero più ottimista e sognatore può immaginarsi CR7 a Torino. È vero che la Juventus è, da qualche anno, tornata nel gotha del calcio europeo. Scudetti e coppe nazionali a ripetizione. Due finali di Champion’s. Ma qui c’è di più. Qui stiamo parlando del calciatore, se non più forte al mondo, più vincente e dominante. Paratici non ne parla con nessuno, ma quando i due si rivedono a Milano, a maggio, per chiudere il trasferimento a Torino di Cancelo, Mendes rilancia. “Cristiano vuole solo top team, con una grande storia e un futuro vincente”. La conferma che il portoghese vuole cambiare aria arriva dopo la finale di Champions League. Il 7 dei blancos, dopo la conquista della terza coppa di fila, non festeggia con i compagni. Con un cenno chiama il giornalista Rodrigo Faez e alla domanda dell’intervistatore sul suo contratto risponde “È stato bello giocare nel Real Madrid, valuterò il mio futuro”. È tutto vero, Florentino non è disposto a rinnovargli il contratto alle cifre richieste. Cristiano, dopo aver scritto la storia del Madrid, vuole andarsene. Paratici inizia a muoversi. Sa che, per rilanciare la squadra, a fine ciclo dopo sette scudetti consecutivi, ci vuole un grande shock. Tempo dopo, in una intervista alla Gazzetta dello Sport, dichiarerà che l’obiettivo numero uno era Mauro Icardi dell’Inter. Ma l’occasione Ronaldo è troppo grossa. Andrea Agnelli prima crede si tratti di uno scherzo. Poi, numeri alla mano, dà il suo ok e, a questo punto, a Mondiale in corso, parte la trattativa vera e propria. All’inizio sembrano solo gossip. Sparate da calcio mercato. Marotta, ad ogni domanda sul giocatore, non conferma e non smentisce e questo, per gli esperti in materia, significa solo una cosa: che è questione di tempo, perchè la Vecchia Signora è sul giocatore. Il ragazzo, intanto, è stato eliminato agli ottavi del Mondiale dall’Uruguay e si trova in vacanza in Grecia. Con Zidane in partenza e il feeling con Florentino Perez ai minimi termini, non esiste che resti in Spagna. La destinazione più probabile: l’amato United. Voci di corridoio danno per certo l’arrivo a Old Trafford, anche grazie all’intercessione di Sir Alex. Ma la Juve non molla. Giorno dopo giorno le notizie prendono conferma e, quando sembra che la trattativa entri in una fase di stallo, ecco che da Torino calano l’asso. Il pomeriggio di martedí 10 luglio, dall'aeroporto di Caselle, decolla un jet privato. A bordo Andrea Agnelli. Destinazione: Costa Navarino, il luxury residence dove Cristiano sta passando le vacanze. Le foto parlano chiaro. Nessuno si nasconde. La Juve sta per acquist
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Cronache Stories - CLAUDIO MARCHISIO: L'INTERVISTA
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06/19/21 • 38 min

FUTSAL - «Ci troviamo in un nuovo palazzetto, quello della L84. Una nuova realtà di calcio a 5. Mi ha preso subito, da fuori pensavo che sarebbe stato semplice, avendo giocato ad alti livelli. E invece c’è tanto lavoro dietro: tanta tecnica, tanto movimento, è uno sport faticoso e divertente, la partita non si ferma mai. Ci possono essere cambi di risultato velocissimi, siamo nel clou della stagione e spero che riusciremo a salire in A1. Si punta a vincere, c’è una grande struttura. Dietro c’è una famiglia che ha costruito non solo la squadra, ma anche uno dei settori giovanili più importanti d’Italia. L84 collabora con la Juventus per insegnare il calcio a 5 ai piccoli. Neymar, Douglas Costa, sono arrivati da questo sport. Stanno iniziando a portare la tecnica di base del futsal nel calcio a 11, e viceversa. Sono due sport che sembrano uguali, ma non è così. Si vive di tanti 1 contro 1, quelli che ci entusiasmano nel calcio a 11: qui è sempre così, anche per il portiere». INFORTUNIO - «Ho imparato che la squadra è importante, ma nei momenti di infortunio fa tantissimo l’aria di casa tua. La famiglia, gli amici. Da infortunato, anche quando vai al campo, viaggi a una velocità diversa. Sì, sei con loro nello spogliatoio, ma vanno a una velocità diversa: fisica e mentale. Devono preparare la prossima partita. Tu hai un percorso più lento, sei sul lettino e poi fai la seconda parte in palestra. Non vivi quei momenti di squadra. Soprattutto in questo periodo, dov’è ancora più difficile muoversi, trovare la serenità a casa, quando sei giù perché il rientro in campo lo vedi lontano, è fondamentale. Chi è a casa con te vive alla tua velocità e può aiutarti a superare l’ostacolo». JUVENTUS - «Vivo con dei mal di pancia in più, la guardo in tv e non allo stadio. La vivo con la passione che avevo da giocatore. Vedere da fuori certi momenti, soprattutto quest’anno con alcuni intoppi, non è facile. Quando eri calciatore, anche se perdevi, la scaricavi nello spogliatoio o in campo. Adesso sono un tifoso. La pandemia mi ha aiutato a fare questo stacco dalla carriera professionistica. I primi mesi ero pronto, avevo preso una decisione ponderata, ma cercavo sempre un po’ il campo, anche solo girando in macchina. E mi tornava la voglia. La pandemia mi ha aiutato a staccare totalmente da quello e stare 100% sulle mie attività».

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“Ricordo il primo lancio col paracadute, a Pisa: eravamo affacciati dal portellone di un C-119, “Il vagone volante”. In cielo, a 500-600 metri d'altezza, prima di buttarci, Luciano si gira e mi fa: “Gigi, e se non si apre?”. (Luigi Martini) Un uragano biondo, travolgente: in campo un vulcano di dinamismo e intensità, un centrocampista all'olandese nella Lazio di Tommaso Maestrelli campione d'Italia 1974. Fuori dal campo una delle anime più forti e riconoscibili di uno spogliatoio spaccato anche fisicamente: lui fa parte della fazione di Gigi Martini e Mario Frustalupi, in fermissima opposizione a quella di Pino Wilson e Giorgio Chinaglia; e come tutti i calciatori del mondo, anche Luciano Re Cecconi ha mille soprannomi. Il più immediato è “Cecco”, la contrazione del cognome, che nella fantasia del giornalista del Corriere della Sera Franco Melli diventa “Cecco-Netzer”, per la somiglianza con Gunther Netzer, sublime fantasista della Nazionale tedesca. Il più gratificante è quello che gli ha regalato padre Antonio Lisandrini, il frate francescano che accompagna la squadra e ha celebrato il suo matrimonio con Cesarina. Lo chiama “il Saggio”, perché Re Cecconi è portatore sano di quella follia che scorre lungo la Lazio anni Settanta come un fiume in piena, ma in più ha conosciuto la vita vera: calzolaio fruttivendolo elettricista, assistente nell'autoofficina di suo cugino, prima di fare il salto nel calcio dei grandi, uno scudetto, due presenze in Nazionale, una convocazione pur senza mai scendere in campo ai Mondiali 1974. La pistola ce l'ha avuta anche lui, s'intende, come quasi tutti in quello spogliatoio in cui si spara un colpo di calibro 38 anche per spegnere la luce senz'alzarsi dal letto. “Alzati tu”. “No, alzati tu”. “Non mi va”. “Aspetta... bum”. “Buonanotte, domani mattina quando ti alzi fai attenzione ai vetri”. Il presidente Lenzini ha un conto aperto con l'hotel per i rimborsi di arredi e lampioni spaccati a colpi di arma da fuoco. Poi una sera Re Cecconi ha fatto finta di averne una in tasca, per fare uno scherzo, forse, non è chiaro, è tutto confuso, anzi non ha proprio senso. L'ultima sera di Luciano Re Cecconi è un pasticciaccio brutto che ha teatro non in via Merulana, come il romanzo di Gadda, ma in via Francesco Saverio Nitti, quartiere Fleming, una zona molto signorile di Roma Nord dove abitano calciatori, politici, giornalisti, funzionari pubblici, imprenditori. La Lazio ci respira le giornate, iniziandole e finendole al Caffé Fiocchetti, prima e dopo gli allenamenti a Tor di Quinto: qualche giorno a preparare il cappuccino ci puoi trovare persino Chinaglia. È lì che è stata scattata una delle foto di culto della Lazio anni Settanta: Chinaglia a capo chino che sta leggendo il giornale, e alle sue spalle una scritta sul muro: “Laziali Bastardi”.

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FAQ

Quanti episodi ha Cronache Stories?

Cronache Stories currently has 94 episodes available.

Quali argomenti tratta Cronache Stories?

The podcast is about Podcasts, Sports and Soccer.

Qual è l'episodio più popolare di Cronache Stories?

The episode title 'EURODERBY 2003 ||| I sei giorni che paralizzarono Milano' is the most popular.

Qual è la durata media degli episodi di Cronache Stories?

The average episode length on Cronache Stories is 23 minutes.

Con quale frequenza vengono rilasciati gli episodi di Cronache Stories?

Episodes of Cronache Stories are typically released every 8 days, 22 hours.

Quando è stato rilasciato il primo episodio di Cronache Stories?

The first episode of Cronache Stories was released on Aug 21, 2020.

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